In questo articolo:
- I dati dell’Osservatorio Smart Things del Politecnico di Milano
- Le categorie più vendute di oggetti connessi per la smart home
- I problemi congiunturali e di scenario che ostacolano la crescita
- I rischi delle telecamere Wyze e dei campanelli Eken
- Una dichiarazione “di resa” sul tracciamento degli smart speaker
- La necessità di un’educazione digitale di massa
- Uno strumento per verificare la sicurezza dei propri oggetti connessi
Eppur cresce, anche se come sempre non secondo le aspettative: i dati della 13° edizione dell’Osservatorio Smart Things del Politecnico di Milano fotografano un nuovo rallentamento del valore del mercato della “smart home” in Italia nel corso del 2023, in aumento “solo” del 5% rispetto al +29% e +18% fatti registrare nel biennio precedente. Il valore totale del mercato dei dispositivi per la casa connessa ha superato di poco gli 810 milioni di euro, dopo essere passato dai 185 milioni del 2016 al mezzo miliardo nel 2019: un incremento al rallentatore che non premia né i produttori storici, né i nuovi fornitori in grado di offrire soluzioni alternative, soprattutto dal punto di vista della tutela della privacy e della sicurezza.
Una crescita incerta, le cui cause vanno ricercate nel più ampio scenario della digitalizzazione di massa
Le premesse sembrano, tuttavia, esserci tutte per portare nelle nostre case un rinnovamento generale degli elettrodomestici, dei dispositivi per il riscaldamento e la climatizzazione, degli impianti audio e di illuminazione, oltre ovviamente dei dispositivi per la sicurezza delle cose e delle persone: sono queste, insieme agli smart speaker, le categorie di oggetti connessi che da sole rappresentano il 90% del valore del mercato italiano e che più di altre sembrano aver suscitato l’interesse dei consumatori, con il 60% degli oltre 1.000 intervistati dai ricercatori del Politecnico che ha dichiarato di avere in casa propria almeno un oggetto connesso alla Rete.
Che cosa “rallenta”, quindi, la crescita del mercato della smart home contro tutte le aspettative di produttori, studiosi e degli stessi consumatori “early-adopter”? Secondo gli autori del report i motivi sono da ricondursi, principalmente, al venir meno degli incentivi pubblici sull’acquisto di dispositivi a risparmio energetico e al persistente problema dell’interoperabilità tra gli oggetti connessi di marche diverse, che il nuovo protocollo “Matter” non sarebbe ancora riuscito a risolvere del tutto. Le cause della persistente debolezza di un settore – da anni ritenuto sul punto di “esplodere” definitivamente – sono da ricercarsi, a mio parere, anche nel più ampio tema della digitalizzazione di massa della società e delle incognite che gravano su quest’ultima, in un’epoca in cui la consapevolezza dei rischi legati alle nuove tecnologie cresce quasi ovunque a fronte di una grave mancanza di programmi di formazione ed educazione digitale strutturati.
I problemi di sicurezza delle videocamere… di sicurezza
Emblematico di questo scarto tra percezione dei rischi e scarsa conoscenza dei processi, tra propensione all’uso del digitale e ridotta consapevolezza dello stato dell’arte delle tecnologie, è il successo commerciale dei prodotti legati al controllo da remoto e alla videosorveglianza, l’unico comparto del settore della smart home a segnare una crescita del 30% anno su anno. Sono, infatti, proprio i dispositivi connessi per la sicurezza delle abitazioni a generare oggi non pochi rischi per l’incolumità e la privacy dei consumatori, come ricordano i casi di cronaca riguardanti le telecamere di Wyze (che nel corso di un disservizio hanno permesso a oltre 13.000 clienti di osservare dentro le case di sconosciuti) e i campanelli smart di Eken, ritirati da Temu e Walmart dopo la scoperta di gravi vulnerabilità nelle modalità di controllo da remoto di questi oggetti “intelligenti”.
I dubbi legati alla privacy e i “consigli” del Garante
Oltre ai pericoli legati alla sicurezza, non mancano le incertezze in merito alla gestione dei dati personali, soprattutto dei minori. Non aiutano a dissipare i dubbi dei non esperti, in questo senso, le raccomandazioni del Garante della privacy per quanto riguarda gli smart speaker: secondo il parere dell’Autorità, infatti, gli utilizzatori di un assistente vocale incorporato in un altoparlante connesso non dovrebbero dire “troppe” cose proprio a quest’ultimo, e dovrebbero sempre ricordarsi di disattivarlo nei momenti di inutilizzo. Raccomandazioni che stridono con l’obiettivo per cui gli smart speaker vengono acquistati (ovvero essere sempre disponibili per rispondere a domande impellenti dei loro utilizzatori), e che non hanno prodotto altri effetti significativi al di fuori di una generica percezione della ambiguità di questi strumenti e dell’impossibilità di controllarli del tutto.
L’urgenza di un’alfabetizzazione digitale di massa
È proprio in questo incompiuto passaggio tra sfiducia e fiducia nei confronti dei dispositivi connessi, fra timore generato dalle notizie di violazioni informatiche e bisogno di dotarsi di strumenti più moderni rispetto ai precedenti analogici, tra conoscenza superficiale dei rischi e ignoranza diffusa delle possibili contromisure che si gioca, secondo me, il futuro del mercato della smart home, al di là della mancanza di incentivi ai consumi e dei problemi di utilizzabilità (problemi che, inoltre, sembrano aumentare con il trascorrere del tempo e il venir meno di aggiornamenti puntuali dei software che fanno funzionare gli oggetti digitali, come ben raccontato da Emanuele Ciotti in un recente articolo su Smart World).
Così come non è stato sufficiente dare alle persone la possibilità di acquistare a prezzi accessibili un computer o uno smartphone per educarle anche all’utilizzo consapevole di servizi digitali, al tempo stesso venti anni di frequentazione di social media e motori di ricerca non preparano in nessun modo alla complessità e alle sfide che la gestione di una casa connessa pongono in termini di scelte, organizzazione e rischi di cui tener conto. Si nota, semmai, negli approfondimenti dei media che seguono il fenomeno, un’implicita fiducia che le leggi europee – dal GDPR al più recente Digital Markets Act fino al prossimo Cyber Resilience Act – possano prevenire i rischi legati all’adozione di massa di servizi e oggetti intelligenti in ogni aspetto della vita quotidiana, sopperendo all’ignoranza tecnologica dei cittadini con la promessa di una maggiore responsabilizzazione dei produttori.
Non potendo garantire – per mancanza di fondi, di personale, della volontà politica di farlo – un’alfabetizzazione digitale di massa adeguata ai nuovi scenari, si spera di colmare così con una legislazione “accelerata” (rispetto a quanto avviene in altri Paesi del mondo) il divario che si è venuto a creare tra ciò che le persone sanno e possono fare delle “cose” ciò che le cose sanno e possono fare delle persone, soprattutto se comandate da remoto da malintenzionati o cybercriminali. La mancanza di conoscenze, tuttavia, potrebbe portare molti consumatori ad adottare atteggiamenti più conservativi nei confronti delle nuove tecnologie, optando per una digitalizzazione limitata dell’ambiente domestico – e solo su prodotti ritenuti irrinunciabili o più appetibili di altri – in luogo di una trasformazione consapevole e trasversale del modo di vivere e di organizzare casa “propria”.
Il software per sapere se la propria casa è sicura (oltreché intelligente)
In attesa che qualcosa cambi non resta che affidarsi, come spesso succede, all’innovazione e all’iniziativa tanto dei professionisti del settore privato quanto di quelli provenienti dal mondo della ricerca più avanzata in quest’ambito: è notizia recente che un gruppo di ricercatori dell’università Mediterranea di Reggio Calabria e dell’University College di London (Francesco Buccafurri, Sara Lazzaro, Vincenzo de Angelis e Anna Maria Mandalari) ha ideato un software, denominato Repliot, in grado di verificare il livello di sicurezza degli oggetti di una smart home simulando gli attacchi di un ipotetico “cybercriminale”. Purtroppo per noi, il un software non è (ancora?) disponibile sul mercato.